Ripubblichiamo il comunicato stampa in risposta alla nota del Comune su tram e piazza dell’Unità (Bologna)

Ripubblichiamo il Comunicato stampa del 18/07/2025 del “Collettivo contro il calore che avanza” in risposta alla nota del Comune su tram e piazza dell’Unità

Il 16 luglio in piazza dell’Unità in Bolognina si è tenuto un flash mob artistico per parlare degli abbattimenti di alberi dovuti al cantiere della Linea Verde del tram. Ecco un riassunto dell’intervento che ha aperto l’iniziativa e che diffondiamo come comunicato stampa, in risposta alla nota del Comune sugli abbattimenti previsti per la Linea Verde del tram. Mentre il sindaco fa parlare delle sue trovate, come i “rifugi climatici” e gli alberelli in vaso, in tutta la città si continua ad abbattere alberi, a disboscare, a consumare suolo come se non ci fosse un domani. 
In tutti i progetti, la distruzione del suolo e delle zone verdi viene giustificata da principi di pubblica utilità o da retoriche “green”. Così, mentre si tirano giù ettari di bosco, si parla di edilizia sociale, di risparmio energetico, di nuovi quartieri ecosostenibili, di impegno nella costruzione di asili e scuole. Non solo le zone selvatiche, ma anche i parchi cittadini vengono aggrediti dalla cementificazione e dall’abbattimento di alberi, come al parco Cavazzoni per l’edificazione dell’asilo nido, o come nel progetto per le scuole Besta al Don Bosco fermato da una pluralità di persone, a costo di manganellate, denunce e di una repressione poliziesca inaudita. E come al giardino San Leonardo che, in nome delle “riqualificazione”, dovrebbe diventare una pertinenza della caffetteria di un’università americana che lavora per migliorare le armi israeliane usate nel genocidio del popolo palestinese, con la quale il Comune ha stretto un patto di collaborazione, nonostante abbia dichiarato di aver rotto i rapporti istituzionali con Israele. Da anni ampie zone verdi della città sono chiuse e recintate dalle reti arancioni dei cantieri del Passante, dove già nel 2023, senza un progetto esecutivo, sono stati abbattuti migliaia di alberi per un progetto che speriamo non venga mai realizzato.

In piazza dell’Unità sono arrivati i cantieri della Linea Verde del tram, e le carte del progetto esecutivo pubblicate su Iperbole mostrano che dovrà curvare per immettersi in via Matteotti. Per farlo taglierà la parte sud-ovest della piazza tirando giù gli alberi che sono sul suo tracciato. Sulle carte sono due, ma nel progetto non è segnato un cedro dell’Himalaya che si trova sul percorso delle rotaie, o altri che lo rasentano molto da vicino. Il numero degli alberi sacrificati in nome del “trasporto sostenibile” si vedrà solo alla fine. In piazza tutti hanno visto i primi effetti collaterali dei cantieri, con le voragini scavate in profondità per installare due plinti, proprio al di sotto del tronco di una conifera, e a poca distanza da un gingko. Ci si può aspettare che questi alberi, con le radici tranciate di netto, tra qualche mese non ce la facciano, risultando malati, pericolanti, moribondi, da abbattere. Facciamo pure conto, come scrive il Comune, che qui in piazza dell’Unità venga abbattuto un solo albero e precisamente solo uno dei due maestosi bagolari che limitano la piazza a sud. Già questo è troppo, già questo è inaccettabile perché non si tratta di un albero, ma di quell’albero, di quel bagolaro che in decenni si è adattato così bene all’ambiente in cui è cresciuto, che con la sua presenza ha trasformato il luogo che lo circonda. La sua ombra protegge le persone in un perimetro che va dalla piazza alla strada, ospita animali. Lui abita qui dal doppio o dal multiplo degli anni di gran parte delle persone che frequentano la piazza. Non mancherà un albero, mancherà quell’albero, e non c’è niente che possa compensare la sua perdita né qui, né altrove.

Il principio della compensazione (taglio un albero qui, ne pianto tre là) è qualcosa che non si può più sentire perché offende ormai l’intelligenza. Le compensazioni giustificano la distruzione di vegetazione e di suolo nelle opere di “riqualificazione” e di “rigenerazione”, trasformando anche la più discutibile pubblica utilità in qualcosa di green. Il principio delle compensazioni è quello che ha fatto fallire la gestione dei livelli di CO2 nelle grandi COP che dovevano ridurre progressivamente la produzione dei gas serra a livello planetario, ma che ci ha condotto su una strada disastrosa. 

La nota del Comune precisa anche che l’attuale progetto della Linea Verde è diverso da quello iniziale, che, insieme alla creazione di un sottopasso, prevedeva l’abbattimento di 50 grandi alberi in più, compresi i platani in via Ferrarese. Non c’è scritto però che la modifica del progetto è arrivata nel 2024 in seguito alle proteste dei residenti di via Ferrarese, allarmati da un impatto sulla via così imponente, peraltro in un momento in cui il caso delle Besta al Don Bosco aveva forte risonanza e forse era troppo a rischio di impopolarità aprire in città un nuovo fronte di conflitto. Si può tristemente constatare che senza l’intervento delle persone residenti, il Comune avrebbe portato avanti un progetto a dir poco devastante, disegnato, come in tanti altri luoghi della città, considerando gli alberi un niente su cui tracciare una linea col righello. 

La stessa logica che vediamo nel progetto di parcheggio multipiano di via di Saliceto (parte del progetto di tram), che prevede consumo di suolo e abbattimento di alberi ad alto fusto. Quello che succede nelle periferie deve irrompere in centro.

Cogliamo l’occasione degli alberelli in vaso. Appoggiamo sui vasi foto di alberi abbattuti, di boschi distrutti, di alberi condannati a morte per testimoniare la distruzione dei veri rifugi climatici che avviene ogni giorno nelle periferie, mentre in centro si parla d’altro.

Questo potrà suggerire a chi governa la città pochi e semplici punti per una vera “rivoluzione verde”, per un vero cambio di paradigma a costo zero: fare meno!
– Smettere di abbattere alberi
– smettere di disboscare
– smettere di cementificare e consumare suolo
– smettere di privatizzare luoghi pubblici

Collettivo contro il calore che avanza (19/07/2025)

IL LABORATORIO DI FISICA APPLICATA DI HOPKINS STUDIA FORME EFFICIENTI DI GENOCIDIO (di HOPKINS JUSTICE COLLECTIVE)

Ripubblichiamo un documento di Hopkins Justice Collective datato 6 Febbraio 2025.

In qualità di primo istituto di ricerca del Paese, la Johns Hopkins è in cima alla lista delle istituzioni accademiche per la spesa in “Ricerca e Sviluppo” della National Science Foundation da 45 anni. Quest’anno, la Hopkins ha speso 3,8 miliardi di dollari per tutta l’Università. Più della metà di questa cifra è stata destinata a un unico reparto: il Laboratorio di Fisica Applicata (APL).

A dicembre, il Dipartimento della Difesa (DoD) ha assegnato all’APL un contratto a tempo indeterminato con un massimo di 3 miliardi di dollari per un contratto decennale di ricerca e sviluppo con l’Agenzia di Difesa Missilistica (Missile Defense Agency). A cosa serve? È difficile da capire perché molte pagine sono segrete o volutamente vaghe. I registri pubblici mostrano che la JHU ha ricevuto almeno 16,01 miliardi di dollari dal DoD dal 2007. Questa cifra è più del doppio di quanto incassato dalle tasse universitarie.

Situato a 40 minuti di distanza da Laurel, Maryland, a metà strada tra Homewood e il Pentagono, l’APL nasconde continuamente i suoi progetti distruttivi dietro la missione educativa dell’Università, pur fornendo l’industria della Difesa statunitense.
Questo laboratorio fu fondato durante la Seconda Guerra Mondiale per sviluppare tecnologia missilistica antiaerea per la Marina e fu successivamente classificato nel 1996 come Centro di Ricerca Affiliato all’Università (UARC). In quanto UARC, la “ragion d’essere” esplicita del Laboratorio è quella di soddisfare “le esigenze a lungo termine” del Dipartimento della Difesa. In quanto divisione non accademica dell’Università, l’APL è anche l’unica eccezione al divieto imposto dalla JHU sulla ricerca strettamente riservata. Questa eccezione è vietata perché contraddice i “principi di libertà d’informazione e ricerca” ed esclude ricercatori non-statunitensi.

L’APL chiarisce che la JHU è innanzitutto un istituto di ricerca militare e poi in secondo luogo un’università. Invece di finanziare miglioramenti nell’istruzione, nel sistema ospedaliero, nello stipendio o persino nelle “tasse proporzionali” a quanto la Johns Hopkins deve alla città di Baltimora, questi miliardi di dollari sono stati investiti in ricerche militari segrete.

Mentre i sostenitori delle partnership tra università e forze armate affermano che l’APL fornisce una preziosa scienza con usi quotidiani, i suoi progetti declassificati ci dimostrano il contrario; questo laboratorio d’innovazioni ingegneristiche si occupa della creazione di strumenti bellici e imperialistici. Durante la Guerra Fredda, l’APL accelerò la corsa agli armamenti nucleari testando diverse “prime mondiali” in termini di capacità missilistiche nucleari, tra cui il famigerato sistema missilistico Tomahawk che in seguito bombardò i civili nell’Operazione Desert Storm durante la Guerra del Golfo.

Nonostante le diffuse richieste al campus di Hopkins durante la Guerra del Vietnam di destinare i finanziamenti dell’APL alla ricerca “socialmente benefica” (ad esempio, edilizia abitativa, inquinamento, trasporti pubblici), gli amministratori della JHU raddoppiarono gli sforzi per mantenere i contratti della Difesa, mentre istituzioni simili come Princeton, Stanford e il MIT (Massachusetts Institute of Technology) si allontanavano da tutto questo. In conseguenza a ciò, la Hopkins si colloca orgogliosamente al primo posto nella lista delle “Scuole di Distruzione di Massa” stilata dalla Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (a p. 20).

Oggi, le “aree di missione” dell’APL sono ancora oggetto di una corsa agli armamenti, a dimostrazione della paranoia delle forze armate statunitensi di perdere la propria egemonia assoluta in ambito scientifico e tecnologico. L’APL fornisce intelligenza artificiale, sistemi missilistici autonomi, tecnologie informatiche per la guerra e la robotica, a dimostrazione della loro dedizione al perfezionamento di alta tecnologia per tecniche di guerra a distanza.

Mentre i vari consigli di amministrazione e amministratori della Hopkins cercano disperatamente di evitare la «percezione che esistano opinioni “istituzionali” approvate o avallate su questioni politiche o sociali» – in particolare quando si tratta di conflitti internazionali – l’APL è la manifestazione dell’ipocrisia istituzionale della Hopkins. L’APL è l’innato impegno socio-politico dell’Università per la militarizzazione globale e la sua profonda dipendenza finanziaria dall’industria bellica americana. Nota: l’APL non produce strumenti per un dialogo rispettoso o per la gestione delle risorse nel risolvere le controversie. Al contrario, hanno contribuito allo sviluppo di:

  • Il sistema missilistico Harpoon, che lo Stato israeliano ha utilizzato nel suo blocco illegale di Gaza per oltre 17 anni, imponendo punizioni collettive a oltre 2 milioni di palestinesi in violazione delle Convenzioni di Ginevra;
  • Aggiornamenti software per i caccia F-35 per individuare meglio i bersagli delle centinaia di mega-bombe che lo Stato israeliano ha utilizzato per bombardare a tappeto la Striscia di Gaza e il Libano;
  • Il sistema di difesa missilistica AEGIS che ha permesso a Israele di
    intensificare le campagne di bombardamento contro Gaza, Siria, Iran e Libano, guadagnando tempo per «porre fine alla minaccia con altri mezzi» (come ha eufemisticamente affermato un esperto d’ingegneria militare).

    La dipendenza dell’APL dai finanziamenti del Dipartimento della Difesa implica che i termini della sua ricerca siano stabiliti in base alle esigenze dell’esercito, in totale antitesi con la missione dell’ambito universitario. Mentre gonfiava le tasse universitarie, tagliava i programmi di laurea e interpretava male i contratti sindacali, la Hopkins ha speso 1,3 milioni di dollari negli ultimi cinque anni facendo lobbying per gli interessi dell’industria della difesa. Chiaramente, la Hopkins non esiterà a proteggere il suo ruolo redditizio nella produzione di armi, anche a spese delle sue affiliate.

Per studenti e docenti, il meglio che l’APL ha da offrire è l’opportunità di entrare a far parte della cerchia ristretta: anche voi potete produrre armi di distruzione di massa! Nonostante la sua classificazione non-accademica, il valore dell’APL per le forze armate deriva in gran parte dalla sua associazione universitaria, che non solo offre al Dipartimento della Difesa e alle aziende di difesa private accesso alle competenze dei docenti, ma soprattutto, al reclutamento di giovani talenti laureati.

Come fulcro di scambio tra l’università, le forze armate e il settore della difesa aziendale, l’APL trova spesso spazio nelle aule della JHU – e viceversa – e si manifesta attraverso programmi di tirocinio come RISE@APL, dove agli studenti universitari della JHU viene offerta l’opportunità di ricercare in aree che includono i sistemi missilistici balistici; o come SPUR@APL, che consente ai docenti della JHU
di co-condurre corsi con il Laboratorio.

Certamente, gli studenti si iscrivono per avere forse la possibilità di lavorare su protesi (artificiali); ma in un ambiente in cui la “sicurezza nazionale” è una priorità, l’APL funge da canale che mette in contatto giovani scienziati e ingegneri con contratti militari che mirano più ad amputare arti che a costruirli

L’obiezione etica e morale all’APL va ben oltre i sistemi d’arma fisici che produce. In quanto divisione, la stessa esistenza dell’APL incentiva e convalida la creazione di scienza per la guerra, e persino per il genocidio. L’ideologia di fondo del Laboratorio, fondata sulle priorità dello “stato di sicurezza”, è pervasiva. Perché altrimenti la sua ricerca sul clima esisterebbe solo sotto l’egida della “Sicurezza Climatica”, con aree di impatto focalizzate su «come le pressioni climatiche potrebbero influire sulle missioni future» e sul mantenimento di una «forza d’intervento pronta per il clima»? Piuttosto che ridimensionare le forze armate statunitensi, che storicamente sono state tra i maggiori responsabili delle emissioni globali che accelerano il cambiamento climatico, l’APL lavora per adattarle proprio al danno che hanno facilitato.

Decenni di resistenze locali hanno sfatato l’idea che qualsiasi lavoro svolto all’APL costituisca ricerca apolitica e altruistica. Come comunità di ricercatori, medici, aspiranti diplomatici e studiosi impegnati nel servizio pubblico in tempi di crescente bisogno, è nostro dovere denunciare la palese speculazione bellica e chiederne la fine.
È nostro dovere sospendere il nostro lavoro e rifiutarci di produrre, con le nostre mani e le nostre menti, gli strumenti dell’imperialismo americano. Non possiamo portare «assistenza sanitaria al mondo» con una mano e con l’altra spendere 165 milioni di dollari per lo sviluppo di missili balistici intercontinentali Sentinel.